Fotografia
Fotografia e visione
Il termine fotografia deriva dai termini greci phos e graphé, e significa scrittura con la luce.
La luce è un’onda elettromagnetica e lo spettro del visibile ha una frequenza di circa 1015 Hz.
Il nostro occhio riesce a percepire la radiazione elettromagnetica come combinazionie di luminosità e cromatismo e le immagini che si formano sulla retina vengono poi elaborate dal nostro cervello.
Nella zona centrale della retina si trovano dei particolari fotorecettori, i coni, che esistono di tre tipi diversi, ciascuno dei quali è sensibile a una particolare componente della luce, quella del rosso, del verde oppure del blu – modello RGB (red, green, blue).
In realtà il nostro occhio è più sensibile alle variazioni di luminosità presenti in una scena che non alle differenze di colore (cromatismi): per questo ci è più facile distinguere il soggetto in una foto in bianco e nero (che conserva le informazioni sulle diverse luminosità di una scena), che in un’immagine che contenga solo la componente di colore, vedi Figura 2.
Con la visione le immagini che si formano sulla retina hanno la caratteristicha di essere latenti, si formano per un istante e il successivo sono già state sostituite da altre che hanno preso il loro posto: il nostro occhio non ha la capacità di fissare un’immagine.
La macchina fotografica
La macchina fotografica è lo strumento tecnologico che è in grado di rispondere a questa esigenza, possiede cioè la capacita di fissare un’immagine su un supporto.
Storicamente nella fotografia analogica il supporto è un supporto analogico, ovvero sia una pellicola di celluloide su si trova spalmata un’emulsione chimica in cui i sali di alcuni elementi (cristalli di cloruro e bromuro di argento) sono in grado di reagire all’esposizione alla luce per aggregarsi e formare l’analogo chimico di un’immagine.
In Figura 4 si può vedere come i sali di bromuro di argento si scuriscono proporzionalmente alla quantità di luce ricevuta e possono così costituire il meccanismo di base per sviluppare una fotocamera in grado di registrare solo le differenti luminosità presenti in una scena – fotografia in bianco e nero.
Nelle fotocamere digitali il supporto è un sensore, ovvero sia un dispositivo in grado di trasformare l’energia luminosa in un segnale elettrico, che viene successivamente elaborato da un processore per trasformarlo in una sequenza di simboli (codice binario) che possono essere immagazzinati come file su un supporto di archiviazione (scheda SD etc).
Un sensore è formato da molte cavità disposte in righe e colonne a formare una matrice di fotositi, delle cavità in cui vengono “intrappolati” i fotoni che raggiungono il sensore.
Sul fondo di ciascuna cavità è presente un fotodiodo, un elemento di silicio che reagisce alla radiazione luminosa convertendo i fotoni (costituenti ultimi della luce) che lo colpiscono in elettroni: tanto maggiore è il numero dei fotoni che raggiungono la cavità, tanto maggiore sarà l’intensità della corrente elettrica che si genera.
Se il sensore fosse fatto semplicemente in questo modo sarebbe in grado di misurare l’intensità della radiazione luminosa ma non la componente di colore. Per ottenere questa informazione sopra ciascun fotodiodo si può mettere un filtro colorato che permetta il passaggio (assorbimento) solo dei fotoni con lunghezza d’onda corriposndente alla componente rossa, verde o blu della luce. I filtri sono disposti a formare una scacchiera come in Figura 5.
L’immagine in uscita dal sensore è una scacchiera colorata che un processore dovrà interpretare per convertirla in immagine visualizzile a monitor o pronta per essere stampata su supporto cartaceo.
In pricipio era la camera obscura
Il principio di funzionamento di una macchina fotografica da un punto di vista ottico è analogo a quello della camera obscura: i raggi luminosi attraversano l’ottica (o obiettivo) che li focalizza sul piano della pellicola (o del sensore) dove si forma l’immagine.
Durante il suo percorso la luce all’interno dell’ottica attraversa il diaframma, un meccanismo formato da una serie di lamelle disposte a ventaglio rovesciato, che possono aprirsi (chiudersi) per lasciar passare una maggiore (minore) quantità di luce.
La pellicola è protetta dalla luce dalla tendina dell’otturatore, altrimenti verrebbe continuamente impressionata: questa si alza per un istante quando viene premuto il tempo di scatto, rimane aperta per un tempo pari al tempo di esposizione durante il quale la pellicola si impressiona, dopo di che torna a chiudersi.
La quantità di luce che arriva sul supporto determina l’esposizione della fotografia. Per avere una “buona” fotografia, ovvero sia una fotografia correttamente esposta, la quantità di luce che raggiunge il supporto deve essere uguale a quella della scena inquadrata, vedi Figura 8. Per misurare la quantità di luce presente in una scena si utilizza l’esposimetro, uno strumento che misura la luce e ci indica quale diaframma impostare sulla macchina fotografica e quale tempo di scatto utilizzare. La coppia tempo/diaframma determina la quantità di luce che raggiungerà il supporto.
Dall’antichità a oggi – storia della fotografia
L’antecedente della macchina fotografica è la camera obscura, già conosciuta nel 450 aC dai cinesi, conosciuta da Euclide e Aristotele nell’antica Grecia (ca. 350 aC) e studiata in maniera approfondita dal fisico arabo Ibn al-Haytham nel 1027.
La camera obscura è stata utilizzata anche da Leonardo da Vinci e dai pittori paesaggisti.
Nel frattempo gli alchimisti già dal XII secolo avevano scoperto che alcuni sali di argento, per esempio il cloruro di argento, se esposti alla luce, reagivano scurendosi.
Nel 1826 a Le Gras, in Francia, Josef Niepce realizzò la prima fotografia, un’immagine dei tetti degli edifici visibili dalla finestra del suo studio (vedi Figura 10). La fotografia richiese un’esposizione di 8-12 ore e l’immagine si formava su una lastra di vetro su cui era stato spalmato del bitume di Giudea, una sostanza in grado di schiarirsi leggermente se esposta alla luce.
Negli stessi anni anche Louis Daguerre in Francia, e Henry Fox-Talbot in Inghilterra, lavoravano allo sviluppo di supporti fotografici. In particolare Daguerre sviluppò il dagherrotipo, una lastra di vetro che veniva trattata con sostanze chimiche e successivamente sviluppata con vapori di mercurio, mentre Fox-Talbot mise a punto un metodo, basato su sali di cloruro di argento, che portava a realizzare un negativo su carta.
Nella fotografia si è poi affermato un negativo sotto forma di pellicola fotografica (vedi Figura 11), una lamina di plastica trattata con sostanze chimiche che viene successivamente sviluppata per ricavare un negativo riproducibile teoricamente un numero infinito di volte su un supporto cartaceo.